Mettere le mani nella terra è cultura. Cento anni fa sarebbe sembrata davvero bizzarra, l’idea che in una biblioteca o in un museo si facessero dei corsi sui segreti della terra.
Sono segreti che ogni “analfabeta” della cultura contadina conosceva benissimo, si tramandavano in dialetto e mostrando sul campo come si pianta, si pota, si semina, conoscendo le stagioni, le lune, le piogge, le esposizioni, le consociazioni e la difesa naturale dai parassiti.
Quella cultura si sta estinguendo mentre noi viviamo tutti da cittadini, anche quando l’orto è a tre metri da casa.
Ci accorgiamo che ci manca qualcosa di profondo ed essenziale. Non solo ci tocca mangiare la verdura chimica ed insipida dei supermercati, ma ci manca anche un alimento psichico, il contatto colla natura, con tutti i simboli che il mondo vivente intorno a noi risveglia nel nostro io.
Un secolo è servito a qualcosa, oggi sappiamo che quelle parole in dialetto e quelle mani sporche di terra dei nostri nonni sono cultura: cultura preziosa, che sfama, che conosce i posti e i suoli; la stiamo perdendo e la dobbiamo ritrovare.
Significa anche riscoprire e tutelare tecniche ed attrezzi antichi.
Significa difendere ad ogni stagione i tipi di piante e ortaggi che per secoli sono stati selezionati qui, adattati a questi climi e questi suoli.
Anche a questo serve una biblioteca, che appunto ha il compito di conservare la cultura.